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DE LUCA promette una battaglia di civiltà contro la legge Severino, ma la civiltà di cui l’ex sindaco parla sta per stato di necessità. Con le norme in vigore – a suo tempo fortemente volute dal Pd per porre un argine alla corruzione e alla privatizzazione delle istituzioni e degli enti locali – graverebbe su di lui, se eletto alla presidenza della Regione, la inesorabile decadenza per la condanna subita in primo grado per abuso d’ufficio. Potrà il Pd invertire la rotta e sposare la posizione di De Luca, fino a cambiare speditamente la legge in Parlamento? L’ex sindaco di Salerno, in attesa che la Consulta sciolga i dubbi sulla questione di legittimità costituzionale relativa ad alcuni profili della “Severino”, appare certo di tale ipotesi, forte del suffragio ottenuto e convinto, com’è, della capacità che i numeri hanno di far cambiare idea al prossimo. Talvolta, però, le inversioni di rotta appaiono ardue: come farà il Pd a farsi alfiere di un revisionismo giuridico globale mentre è ancora viva l’eco della sua drastica posizione assunta contro il sindaco di Napoli De Magistris, colpito proprio dal dettato di quelle norme e invitato perentoriamente per giorni a dimettersi? Vincenzo De Luca ha creato, non v’è dubbio, l’ennesimo problema al Pd, e non sarà l’ultimo. Il suo partito/non partito (ottenuto in fondo solo qualche anno fa dalla fusione “a freddo” tra Margherita e Ds) è stato fin dalla nascita da lui utilizzato per personali strategie di potere: De Luca, civico ad oltranza in città e fustigatore implacabile dei costumi democrat, ha sempre disprezzato il Pd fino a quando non ne ha acquisito il totale controllo; cosa che è avvenuta per ora a Salerno, dove la sala macchine è saldamente nelle mani di un personale politico assai scadente, formato alla scuola del fondamentalismo deluchiano. Intanto, fino a pochi giorni fa, in concomitanza con i ricorrenti rinvii delle primarie a causa dell’imbarazzo che creava proprio la sua posizione giudiziaria, De Luca ha sparato cannonate di bile contro la casa madre romana (e napoletana) dei democratici che, invece, in queste ore, prova a blandire con carezzevole linguaggio di circostanza. Il personaggio mantiene così ben salda la sua coerenza da Giano Bifronte, che gli ha consentito di esportare, di sé, per più di due decenni, un calco magniloquente e infido, in grado di contrabbandare per avanzamento progressista anche la profonda crisi amministrativa degli ultimi anni, segnati da gestioni dissennate, dispendiosissime e inconcludenti, con un Comune prossimo al dissesto e una città oppressa dal cemento selvaggio e da un profondissimo vuoto culturale. La parola sul caso Campania, a questo punto, passa a Renzi, che non potrà più tacere e dovrà dire chiaro e tondo se una legge dello Stato (promulgata, in quanto legge, per tutti gli italiani, ma ritenuta demenziale da Vincenzo De Luca che vi ha contravvenuto) può essere abrogata o modificata per salvare una carriera politica. Se Renzi aderirà a tale richiesta, imbarcando sulla sua scialuppa di salvamento anche l’ex sindaco condannato, pluri-inquisito e decaduto, confermerà che la sua leadership vive un presente condizionato fortemente dagli ambigui eventi periferici. Sarebbe un modo improvvido di recuperare terreno, dopo i lunghi mesi di tentennamenti e di indeterminatezza, nel corso dei quali non è stato impedito a Vincenzo De Luca di candidarsi alle primarie, ben sapendo che egli non potrà ricoprire il ruolo di governatore, per il quale si è auto investito dopo la sonora sconfitta già inflittagli dall’attuale governatore cinque anni fa. È vero che lo statuto del Pd fu redatto prima della legge Severino, ma un evento storico per il recupero della credibilità della classe dirigente, quale fu quella legge aspra ma necessaria, avrebbe dovuto trovare spazio nella vita e nell’organizzazione del più grande partito italiano. Invece, no. Tant’è che De Luca, senza contravvenire ad alcuna norma, si è potuto candidare alle primarie che, però, nessuno lo dimentichi, sono e restano primarie (e non altro). Una precisazione, questa, che si impone in considerazione del linguaggio iperbolico dell’ex sindaco. È una figura retorica, l’iperbole, che non si addice al caso di specie. Battaglie di civiltà e altre magniloquenze linguistiche non legano con una competizione che, senza nemmeno entrare nel merito di alcuni prodigi partecipativi salernitani molto inspiegabili, ha riguardato appena il 4% dei residenti tra capoluogo e provincia. Una festicciola per addetti ai lavori e supporters, insomma, dalla quale non è possibile estrarre nemmeno un tracciato sociologico sull’homo democratricus/renzianus in Campania, aperta com’è stata al contributo decisivo di portatori d’acqua di altri partiti e di sotterranei consociativismi d’accatto (eclatante il caso Udc), con personaggi rivelatisi deluchiani a Salerno e governativi convinti con Caldoro a Santa Lucia. Sono questi i simboli intramontabili di neotrasformismi in salsa democrat incompatibili con il senso etico ed estetico che una democrazia dovrebbe conservare anche nelle sue vicende meno fauste come questa attuale.
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