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I Lucani, come gran parte dei popoli dell’area mediterranea, si sono sempre spostati. Anche in età pre-unitaria – quando i flussi migratori erano di dimensioni ridotte rispetto a quelli a cavallo tra Ottocento e Novecento – i nostri corregionali si spostavano lungo tutta l’Europa, e non solo, alla ricerca di migliori condizioni di lavoro. Si trattava, nella maggioranza dei casi, di un’emigrazione temporanea: si partiva, si lavorava per un determinato periodo e poi si ritornava a casa, con la piccola fortuna accumulata (non sempre accadeva) per garantire la sopravvivenza di chi era rimasto ad aspettare, di solito donne e bambini.
Il caso di cui voglio parlarvi questa volta riguarda un fenomeno di emigrazione dell’inizio del XIX secolo, concernente la Valle del Noce: quello dei ramai e calderai di questa zona, esportatori di una tradizione antica, di cui ho già avuto modo di parlare nell’ultimo numero di Basiliskos (Edigrafema Editrice, Policoro, 2014), la rivista dell’ISSBAM (Istituto di Studi Storici della Basilicata). In quella sede, ho illustrato come non esiste una sola migrazione interna al Regno delle Due Sicilie che porta, ad esempio, i braccianti abruzzesi a spostarsi nella Terra di Lavoro o nello Stato pontificio per lavorare le terre fertili che mancavano dalle loro parti; così come non esisteva una migrazione esclusivamente intellettuale o comunque “di nicchia”, che portava professionisti e artisti a ricercare opportunità nelle città maggiori, in primis Napoli. Un fenomeno importante era quello della mobilità oltreconfine (del Regno), riguardante soprattutto chi praticava mestieri antichi, che oggi potremmo definire di una certa “specializzazione” (la cosiddetta “emigrazione di mestiere”); all’interno di questo fenomeno è possibile rintracciare lo spostamento di artigiani lucani: si pensi ai suonatori viggianesi e agli argentieri marateoti, ma anche ai calzolai lagonegresi.
Dunque, tale fenomeno ha interessato anche – e particolarmente – l’area del lagonegrese, che già all’epoca appariva particolarmente depressa e svantaggiata nella sua dimensione sociale ed economica. Condizione che spinse a partire, nel corso del tempo, diverse figure di artigiani, tra cui molti maestri calderai, lavoratori del rame che producevano (e producono ancora oggi, seppure in scala molto ridotta) manifatture in quel metallo. Un mestiere antico e socialmente riconosciuto, tanto da aver ispirato ad esempio il nome dei legittimisti borbonici organizzatisi nel regno agli inizi del XIX secolo sotto il nome, appunto, di setta dei Calderari.
Le comunità di Rivello e Trecchina sono storicamente legate alla tradizione della lavorazione del rame; rame che veniva prodotto a Nemoli (all’epoca, facente parte del territorio rivellese), come ci ha ricordato lo studioso Antonio Boccia qualche mese fa:
https://www.arrotinomagazine.it/index.php/radici/radici/luoghi/647-anticaramiera
Recenti studi hanno attestato l’emigrazione di artigiani del rame provenienti da questi comuni già alla fine del XVIII secolo. Particolare interesse, però, ha destato il punto di approdo di molti di loro: la penisola iberica, nel suo complesso (Spagna e Portogallo). I calderai rivellesi privilegiarono la Spagna, stanziandosi – a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento – nell’area sud-orientale della regione di Castiglia la Mancha, precisamente nella cittadina di Hellin (a metà strada tra Albacete e Murcia). Nell’antica Illunum i pionieri rivellesi ebbero vita facile a imporre la loro professionalità in un’attività evidentemente carente in loco, e in breve tempo si imposero nella produzione di uso domestico (pentole, stufe, lanterne, contenitori di liquidi alimentari) e industriale (caldaie, tubi, piatti,strumenti per la distillazione). I loro cognomi –Vigorito, Cernicchiaro, Ciuffo, Dommarco – tradiscono le loro indubbie origini valnocine. Negli ultimi anni la loro storia e le loro storie individuali sono ritornate alla ribalta grazie all’interessamento di uno studioso locale, Juan José Villena Pérez (https://archivomunicipaldehellin.blogspot.it/2013/08/caldereros-de-rivello.html), appassionatosi al tema proprio perché alla ricerca di notizie sui suoi antenati. Il lavoro di Pérez ha non solo riportato alla luce importanti documenti utili alla ricostruzione dell’epopea migratoria rivellese in quella regione spagnola, ma ha permesso il riconoscimento sociale di questo imponente gruppo di emigranti, ai quali nel 2013 è stato intitolato uno spazio pubblico (si veda: Intitolato in Spagna un giardino pubblico ai Calderai di Rivello, «Eco di Basilicata», a. XII, n.17, 15/9/2013, p. 24).
Il flusso di calderai dalla Valle del Noce verso la penisola iberica si deve però ascrivere a un’epoca precedente a quella dell’insediamento della comunità lucana ad Hellin. Questo possiamo affermarlo grazie a documenti conservati negli archivi di Stato di Lisbona e Napoli, che attestano l’emigrazione dei calderai provenienti da Trecchina (molto importante sono anche i registri della locale parrocchia di San Michele Arcangelo), e operanti in Portogallo già negli anni Venti del XIX secolo. In questo periodo ci si imbatte nei casi di alcuni trecchinesi, di professione caldeireiros (che in portoghese significa appunto “ramai”), protagonisti di una vera e propria diaspora piena di vicissitudini, segnate dalle vicende storico-politiche che interessarono quel paese in quel decennio. Anche in questo caso i cognomi parlano da soli: Vecchio, Schettino, Puppo, Calabria, Giffoni, Maimone, Caricchio, Martone, etc.
Il legame dei trecchinesi con il Portogallo ci permette di allargare il segmento cronologico del legame di Trecchina con i paesi di lingua portoghese, già attestato per quanto riguarda la grande epopea migratoria della fine del secolo: nel 1880, infatti, emigranti trecchinesi (partiti proprio da Lisbona) fondano una città nello Stato di Bahia, in Brasile, di nome Jequié. A questo episodio due autori dalle inconfondibili origini, Carlos e Carmine Marotta, hanno anche dedicato un romanzo, Casa Confiança. Storia della fondazione di Jequié (Carmignano 2003; https://www.casaconfianca.org/).
Ritornando al Portogallo, si deve ricordare un’altra importante figura dell’emigrazione trecchinese, che nel passaggio tra i due secoli avrebbe affermato la sua capacità imprenditoriale nella capitale lusitana, e la cui memoria di benefattore è ancora molto salda nella comunità di origine: sto parlando di Francesco D’Onofrio, proprietario di una oficina de caldeireiro, al numero 54 della centrale rua da Boavista. Ancora oggi il locale e l’attività sopravvivono (in una strada in cui si concentrano i venditori di materiale affine – vedi foto di questo articolo), anche se i proprietari non sono più di origine lucana.
Queste storie d’emigrazione iberica che ci riguardano da vicino e che ho rapidamente illustrato in questa sede sono testimonianza importante della nostra storia sociale, meritevoli di maggiore approfondimento (ma per questo vi rimando alla rivista), perché importanti tasselli del lungo percorso della nostra identità. Per il momento, il recupero della memoria di questa antica tradizione artigiana valnocina – e dell’epopea migratoria a essa legata – è egregiamente portato avanti dagli amici dell’associazione “La Biblioteca Rivellese”, che stanno curando un gruppo su facebook pieno di informazioni e immagini:
https://www.facebook.com/groups/1462047977408813/?fref=ts
Vi invito a visitarlo, e sostenere questa meritoria iniziativa, nel caso siate in possesso di utili informazioni.
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