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Pur essendo un lucano che ha deciso di emigrare all’estero per provare un (difficile) percorso di specializzazione accademica, come tanti altri italiani della mia generazione, sono stato giocoforza catapultato nella retorica della “fuga dei cervelli all’estero”; che però non mi ha mai appassionato e anzi ho trovato sempre particolarmente fastidiosa, fuorviante nonché sostanzialmente falsa nella rappresentazione che vuole dare.
Perché? Tenendo da parte l’ambito soggettivo (non ho mai creduto di essere una risorsa insostituibile per la mia comunità), se prendessimo per vero il paradigma della fuga dei migliori significherebbe, per converso, che chi rimane sia sostanzialmente uno stupido (quando invece, date le attuali condizioni della nostra regione e del nostro paese, chi decide di restare per provare a cambiare le cose è un vero eroe).
Perché mi pare abbastanza scontato riconoscere che non basta metter piede o piantare le tende oltre confine per trasformarsi repentinamente in menti illuminate (se basicamente siamo dei mediocri lo saremo tanto a Lauria quanto a Sidney); ancora, perché quel concetto è intriso di una sorta di postmodernismo dell’emigrante, per cui i cervelli hanno cominciato ad andarsene negli ultimi venti anni, cioè quando nel passaggio alla comunità tecnologica si è realizzata una selezione della specie, che ha destinato al viaggio verso realtà più gratificanti professionalmente una ristretta élite di giovani rampolli della scienza e della conoscenza.
Infine, perché se fosse vero (cosa che a mio modesto parere, lo ribadisco, non è) vorrebbe dire che tra i milioni di italiani e le centinaia di migliaia di lucani emigrati all’estero tra la fine dell’Ottocento e il secondo dopoguerra non ci sia stato nessun cervello dotato di acume e genialità: infatti non si fa mai riferimento all’esodo di massa come possibile esodo di cervelli. Vi è in questa concezione una profonda connotazione “di classe”: siccome ad emigrare in quella lunga e dolorosa epopea fu sostanzialmente povera gente, si ignora o peggio si accetta implicitamente l’idea che quell’esercito di diseredati non potesse albergare quelle che oggi chiameremmo “eccellenze”; che tra i tanti che furono costretti a espatriare non vi fossero i germogli di una migliore rappresentazione della nazione all’estero. Sappiamo che la storia dell’emigrazione e molti suoi esempi sconfessano questa visione.
Mi sembra superfluo dover sottolineare come la genialità stia anche nella manualità, in quella capacità artigianale che il nostro popolo ha reiterato nei secoli attraverso le sue straordinarie maestranze, che anche noi contemporanei, nel corso delle nostre vite, abbiamo potuto apprezzare (sia fra chi è andato via, sia fra chi e rimasto in Lucania).Esse rappresentano la prova di una straordinaria intelligenza e capacità del fare, in cui l’arte si manifesta nel saper usare il cervello insieme alle mani. Un preziosissimo patrimonio che la crisi e l’eccessiva tecnologizzazione dell’esistente rischiano di far andare smarrito. Dunque, secondo il mio punto di vista (e non si colga nell’affermazioneche segue una provocazione, perché non c’è), costituiva la fuga di un cervello all’estero – nella sua specifica dimensione socioeconomica – anche l’emigrazione di un maestro calderaio rivellese che esportava la sua maestria in tutti gli angoli del mondo, contribuendo sia alla diffusione di un mestiere, sia alla sempre maggiore specializzazione della manodopera.
La maggiore differenza tra quel maestro calderaio e le più giovani e brillanti intelligenze dei nostri giorni sta, sostanzialmente, nella differenza dei tempi e nel grado di discrezionalità della scelta: negli anni bui della grande diaspora italiana la miseria non lasciava alcun margine al libero arbitrio. Le nostre scelte di emigranti del nuovo millennio, invece, seppur connotate dalla sofferenza del distacco e indotte dall’assenza di opportunità, sono frutto di riflessioni ponderate e attente valutazioni (parlo in termini generali, riconoscendo che esistono eccezioni e casi particolari). Cento anni fa difficilmente si rimuginava sulla meta, bensì ci si affrettava a partire; poco spazio era concesso all’immaginazione (soprattutto sull’attività che si sperava di andare a svolgere, in quanto fondamentalmente una valeva l’altra), e il luogo di destino era stabilito da quella dinamica detta “effetto di richiamo”, per cui si andava solitamente dove già esistevano comunità di origine (pensiamo alla catena parentale/amicale che nel corso degli anni portava alla costituzione – nella nazione di arrivo – di altri e più grandi paesi rispetto a quelli che si lasciavano in Basilicata; si pensi ai casi dei rotondesi o dei pescopaganesi in Argentina).
Nel caso dell’emigrazione degli ultimi venti anni – secondo la comune vulgata un esodo di Aristoi verso terre di migliore accoglienza e con migliori condizioni di lavoro (ma sarà veramente cosi? Leggete qui: https://www.neodemos.it/index.php?file=onenews&form_id_notizia=669) – le dinamiche proprie all’emigrazione di massa del secolo scorso non valgono più, ovvero sono molto marginali: si sceglie solitamente il luogo di destinazione in base alla valorizzazione delle competenze acquisite a livello intellettuale, professionale, universitario. Insomma se ho studiato per fare l’ingegnere nucleare, molto probabilmente sceglierò di emigrare in un posto in cui avrò l’opportunità di spendere la mia formazione, con scarsa propensione ad accettare mansioni di rango inferiore o comunque con una disponibilità a farlo limitata all’attesa di una sistemazione all’altezza delle mie aspettative.
Eppure anche in questo contesto prevalente si sono affermate variabili tutt’altro che indipendenti, che ci riportano sia alla dimensione ormai europea del mercato del lavoro (soprattutto del lavoro precario), sia alla natura “intelligente” – nel senso di capacità di comprensione sensibile – dell’essere umano. In questi tempi di eccezionali, drammatiche e profonde mutazioni di carattere sociale ed economico, in cui si sgretola inesorabilmente l’assetto valoriale che ha guidato la civiltà occidentale durante decenni di benessere, sono variegate le ragioni che spingono ad abbandonare il territorio di origine. Si affermano logiche strettamente emotive che nulla hanno a che fare con l’economia; spesso il sentimento ha come volano la condizione di individualità e solitudine a cui ci costringe la società del presente; non a caso gli studiosi sembrano cogliere maggiore insofferenza emotiva e accentuata propensione alla mobilità tra chi proviene da ambienti familiari benestanti.
Un’altra dimensione comune è quella in cui si afferma una volontà di ribellione nei confronti di una generazione ormai canuta, che per decenni si è impolpata con remunerazioni, benefit e tutele assolutamente inimmaginabili per noi giovani lavoratori precari, e da questa posizione di privilegio ha ancora la pretesa di dettare la linea (morale e professionale) senza lasciare spazio a un naturale turnover. È questa la dimensione più ampia nel caso italiano e, in particolare, in quello lucano. Ad onor del vero bisogna ammettere che questa grassa generazione “dei padri” (procedo per generalizzazioni) continua a garantire quel sempre più effimero benessere familiare che ormai ha assunto i connotati di un insostituibile sistema di tutela sociale (quello che, fondamentalmente, manda avanti i consumi nella nostra regione); allo stesso modo, è vero anche che questi stessi padri stanno uccidendo la nostra di generazione, e lo fanno mentre sono convinti di tutelarla. È in questa pericolosa dinamica che si sostanzia l’atto di ribellione di chi va via, e che magari porta chi ha studiato per diventare ingegnere nucleare, o più semplicemente docente di scuola media, a emigrare per lavorare in un call center di un paese periferico dell’UE. In fondo, prevale in ognuno di noi la voglia di farcela; la voglia di farcela da soli e dimostrare di esserne capaci (un sottile filo rosso ci riconduce alla vecchia emigrazione).
A questo proposito, chiudendo questa mia prolungata riflessione e, ringraziando chi ha avuto la pazienza di leggermi fino a questo punto, mi vengono in mente le parole che Philip Roth fa pronunciare a uno dei suoi personaggi:
«[…] pensando che venire in America era la cosa più coraggiosa che avesse mai fatto anche se allora non poteva sapere quanto coraggio ci sarebbe voluto. L’aveva fatto cosi, semplicemente, come passo ulteriore richiesto dall’ambizione, e nemmeno da un’ambizione volgare, ma da un’ambizione dignitosa, l’ambizione di essere indipendente, e queste, ora, sono le conseguenze. Ambizione. Avventura. Attrazione. L’attraente prospettiva di andare in America. La superiorità. La superiorità di chi parte. Di chi è partito per la soddisfazione di tornare a casa, un giorno, dopo avercela fatta, di tornare trionfalmente a casa. Me ne sono andata perché un giorno volevo tornare a casa e sentirli dire…Cosa volevo sentirli dire? “Ce l’ha fatta. Ha fatto questo. E se ha fatto questo è capace di tutto”» (La macchia umana, 2003, Einaudi, p. 296).
In bocca al lupo ragazze e ragazzi, in bocca al lupo a tutti voi che partite. Non ambite solamente a essere cervelli, non prendetevi troppo sul serio; ambite anche a diventare donne e uomini. Che pensano, che sentono, e che sono capaci di tutto. Perché è da donne e uomini che ritornerete. Ed è così che ci sarete utili.
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