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Ho un concetto di cosa è mio molto particolare, motivo per cui, insieme a una congenita distrazione che fa il paio con una involontaria sciatteria, perdo cose in continuazione. 

Ne perdo così tante e così spesso che ho smesso di affezionarmici. Forse non l’ho mai fatto. E’ una cosa complessa per chi mi sta vicino, che a volte scambia per disinteresse il fatto che io vada smarrendo regali, oggetti, pensieri. Non è così. Perdo di vista le cose, non il ricordo, non l’emozione nell’averle ricevute, non la gioia del dono. 

E’ complicato, è vero. Tanto che sono lontanissima e davvero faccio fatica a capire le persone legate alle cose come a feticci. Come se gli oggetti non fossero corruttibili, o passassero indenni la prova del tempo. Come se non fossero, solo e semplicemente: cose. 

Faccio così anche con le case, ne ho cambiate talmente tante, una ventina di traslochi in quarant’anni, che non avrei potuto fare altrimenti.

 Di tutte conservo un’immagine, di alcune addirittura gli odori. Di sicuro un ricordo. Anche di quelle che ho odiato e sono, e non è voluto, fotografie tristi. Brutte. Di quelle che ho amato invece sono immagini commoventi.

 Io e il Gino che cuciniamo le trote a Camigliatello. Zia Gina seduta nel tinello, davanti alla finestra al Cozzo. Io e Edo nel lettone e l’Aldo che ci legge le favole alla Piazzetta. Mio padre nel bagnetto trasformato in camera oscura a casa a Roma. La Marìa e Giorgio stretti sul letto, in silenzio, il giorno dopo i funerali di nonno Gino, a Seggio. 

Mia nonna Teresa che insegue i topi nella cantina alla Piazzetta. Francesco che la domenica porta le pastarelle e ci dice da prima quali sono le sue, a Santanaria. Io, Maria, Edo e Francesco che mangiamo mappazzoni di riso scotto con improbabili verdure a via Massacciuccoli, a Roma. Le pareti azzurre sulla Nomentana. Il rumore delle lacrime, l’odore dolciastro del dolore a Casalotti, quando mia sorella ci ha lasciati, per sempre. Ice e Dana che dormono ai due angoli del divano a via Val d’Ossola. Giovanni Donato in tappine e canotta che studia nel salotto a via Dessiè, a Roma. 

Oliver che scorrazza nel giardino di via Monte Bianco e Domiziano che viene a cucinare dopo averci detto cosa comprare. Io e Livia smarrite in quel sottotetto a via della Cupa, a Perugia. La mia comunione a San Giovanni di Dio, la casa aperta alla Piazzetta. L’odore del pane dal forno di Levante. Quella casetta ad Avignone presa per le vacanze, dove sei arrivata che eri una quasi moglie e sei tornata con una vita da ricostruire. Il fiato corto per gli scaloni a casa di Edo, ad Ancona. La pozza di sangue al Laurentino. La Gnapina che addobba il terrazzino con candele e tappeti colorati a via Dessiè. Mia madre che stringe le mani della Marìa a Seggio, poco prima che morisse. 

Io e Mff che ceniamo la notte, notte parlando sottovoce, a Rende. La vista strepitosa di quel monolocale a Cosenza vecchia. Io e Laila che cantiamo a squarciagola sul cd di Tozzi, dello zio Ettore da Martucci. Il tavolo da ping pong nel giardino di Evy al mare bizantino. L’angoscia a San Paolo. Teresa e Aldo che si stringono le mani, su quel letto fatto di lenzuola bianche, dolore e amore sul far del tramonto al Traforo. I sette nani in terracotta al residence di Rende. Mamma, papà e Teresa che ridono nel soggiorno a Santanaria. Il professore in camicia bianca che legge a casa da Ettore, in montagna. Giovanni e Viola sotto una tenda piena di palle colorate a Parma. Laila che studia mentre io le parlo di cazzate in quell’antro a Perugia. Le streghe all’Onaosi. 

Ne ho a caterve di immagini così. L’ultima siamo e io Simo al pc ai due lati della stessa lunga scrivania. Ma questa è una storia ancora tutta da costruire.

 

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